Nel suo recente saggio Un’estate con Baudelaire edito da Garzanti, Antoine Compagnon abbatte le barricate attorno al poeta maledetto e sorprende un artista che combatte contro se stesso.

Tutto è diviso in Baudelaire. Non è classificabile, non si può ridurre a una semplificazione. Rispettiamo le sue contraddizioni.

 

un-estate-con-baudelaire-antoine-compagnonCosa c’è di strano nel (ri)leggere Baudelaire quando l’autunno ha ormai fatto capolino alla fine della bella stagione? Chi non ricorda, infatti, i versi iniziali della famosa poesia Spleen: «Quando come un coperchio il cielo pesa / grave e basso sull’anima gemente / in preda a lunghi affanni, e quando versa / su noi, dell’orizzonte tutto il giro / abbracciando, una luce nera triste / più delle notti…» dalle atmosfere crepuscolari, fosche e asfissianti, dalle metafore simboliche che escludono possibilità di speranza per il poeta, vittima di uno stato d’animo di angoscia perenne?

Eccentrico (e coraggioso) è invece chi, come il professore di letteratura francese presso il Collège de France, Antoine Compagnon spinge il suo pubblico, per la terza volta, a trascorrere la stagione votata all’evasione e al divertimento per antonomasia, in compagnia di un contrastante, classico autore francese. Reduce dal successo, dopo il grande seguito del programma radiofonico condotto presso una emittente nazionale, del saggio Un’estate con Montaigne pubblicato da Adelphi nel 2014, cui è seguito l’anno dopo Un’estate con Proust edito da Carocci, il famigerato professore ci ha riprovato nel 2016 con una provocazione ancora più ostica, Un’estate con Baudelaire, pubblicato a maggio da Garzanti.

In questa più recente peregrinazione saggistica, l’autore si propone di parlare di un poeta che, come sa chi lo conosce bene, non amava la stagione del sole. Lo ammette il professore francese, nell’introduzione del libretto, che si tratta di «un’impresa ardua», ma si lancia audacemente nel suo compito per attirare un pubblico di lettori più ampio possibile, affinché riconsideri l’eterogenea produzione di un artista così tanto discusso. Grazie alla lettura del saggio è possibile riscoprire la forza provocatoria dei suoi versi, l’esigenza di un esprimersi violento, l’indolenza di un dandy che, senza il suo ambivalente desiderio di redimersi da pigrizia e inazione, non avrebbe potuto dare origine a opere attraverso le quali, come sperava, vive e rivive nell’eternità.

Come si muove allora il professore francese nella presentazione di un personaggio contraddittorio e scomodo, quale era Baudelaire?

Affidandosi a una libertà stilistica che cattura l’attenzione del lettore senza mai annoiarlo o confonderlo, nella sua analisi Compagnon procede, come egli stesso dichiara, alla stregua del precedente saggio su Montaigne, a «salti e a sgambetti». Si passa così dal malinteso mai cessato fra madre e figlio, alla posizione dei primi tra i più famigerati estimatori di Baudelaire, come Anatole France e Proust, i quali hanno contribuito a una interpretazione più classica delle sue opere, per poi approfondire gli elementi peculiari della sua vasta produzione, facendo leva sulle principali ambivalenze che la contraddistinguono. Cito la teoria del riso e del grottesco, determinante a smascherare l’ignoranza della miseria dell’uomo moderno che satanicamente ostenta una presunta superiorità, mentre in realtà si ritrova in una condizione di degrado fisico-morale, o l’idea perturbante di bellezza, che sottende un vago e triste senso di malinconica, fino al disprezzo verso le donne, che nasconderebbe la nostalgia del passato delle carezze materne. Non a caso nel primo breve capitolo Compagnon si sofferma su una lirica, quasi sempre trascurata, della più famosa raccolta di poesie baudelairiane, I fiori del male, in cui il poeta fa riferimento all’estate.

È importante ricordarla proprio perché di queste citazioni nella sua vasta produzione non se ne ritrovano quasi per niente. In questa lirica senza titolo si fa riferimento a un preciso momento dell’infanzia del poeta, l’estate perduta per sempre, precisamente quella fra il 1827 e il 1828, definita dallo stesso Baudelaire Il bel tempo delle tenerezze materne. Il rapporto con la madre fu caratterizzato da forti ambivalenze: da un lato il poeta proverà per sempre la nostalgia del fugace momento di devozione assoluta da parte della figura materna, dalla quale fu bruscamente strappato quando la donna decise di risposarsi con il generale Aupick, dall’altro serberà un forte rancore per questo abbandono. La loro corrispondenza epistolare, definita da Compagnon «straziante», evidenzia un legame contraddittorio, scandito ora da aspre critiche e pesanti rimproveri che il figlio rivolge alla madre, ora da accorate scuse. Baudelaire le parlava dei suoi sogni di migliorare la posizione sociale, dei progetti di opere che lo avrebbero fatto conoscere e riscattare da una condizione di ristrettezze economiche. Una delle lamentele mosse contro quella che ormai egli denominava “la Signora Aupick”, fu proprio la disattenzione della stessa nel non aver notato che nella lirica citata il figlio parlasse proprio di lei.

Baudelaire, come è risaputo, è anche l’emblema del poeta maledetto, l’intellettuale degli eccessi, dalla scrittura violenta e provocatoria, il controrivoluzionario durante le barricades a Parigi, il flâneur misogino, il critico pungente verso il suo tempo, il dandy fiero della sua indolenza, privo di regole sociali, che vive la perenne tensione fra incoraggiamento al lavoro e il destino cui è sottomesso, quello di rinviare il suo lavoro. Compagnon ce lo presenta così sotto le vesti di «un malinconico che si rimproverava la propria inazione» e che «soffriva per la propria pigrizia, detestava la sua procrastinazione e sognava di creare». Siamo allora di fronte all’ennesima ambivalenza: l’idea del lavoro per il poeta è dolore, ma al tempo stesso è rimedio al dolore, allo spleen. Baudelaire non fu, quindi, un autore prolifico, ma proprio la sua condizione di pigrizia e inoperosità ha reso possibile la sua produzione.

Anche nella sua natura politico-rivoluzionaria, il poeta rivela una idiosincrasia di fondo: lo ritroviamo dietro le barricades, non a inneggiare alla Repubblica, ma per un istinto di rivolta, come dirà nella lirica Il mio cuore messo a nudo per «il gusto della distruzione» un «amore naturale del crimine», con i quali manifesta il suo odio per la visione militare della letteratura tanto osannata dagli intellettuali progressisti. Il suo impeto rivoltoso si manifesta allora nel suo accanirsi come poeta sulla carta usando l’arma della sua penna, perché l’unica battaglia da sostenere per un artista è quella contro se stesso.

Di fronte alle innumerevoli contraddizioni riportate, qual è, dunque, la posizione più corretta da assumere per leggere /rileggere i versi baudelairiani?

Non ve n’è una che predomini su tutte, sembra volerci dire il professore, perché il poeta ci ha lasciato in eredità una produzione composita, fra versi e prosa, frammenti intimi, satire, critiche letterarie e artistiche, che rischia di confondere spesso le carte. È per questo che emerge una personalità segnata da un profondo dualismo fra desiderio di ascendere a una condizione spirituale superiore, celeste, e il piacere di orgoglio che si prova quando si scende negli abissi dell’Inferno. Baudelaire rappresenta, quindi, un autore dalla poetica contraddistinta da una serie di paradossi, non facili da smantellare. Uno dei più controversi, che comprova in conclusione l’impossibilità di semplificare la seducente produzione letteraria con cui lo scandaloso poeta francese attira il pubblico, è il suo rapporto con la modernità, verso la quale provava una forte repulsione e allo stesso tempo ne era attratto.

Sappiamo che Baudelaire ha fatto da spartiacque fra l’epoca classica e l’epoca moderna e ha decisamente risentito di quel frastuono che irrompeva nella Parigi di fine Ottocento, in cui si andava formando la società di massa. Il concetto di modernità nella poetica baudelairiana risulta pertanto assai complesso e, specie nella teoria dell’arte, critici del calibro di Walter Benjamin hanno riscontrato un punto debole, finendo per liquidarla a un’analisi superficiale. In realtà Compagnon, nel suo studio esamina scrupolosamente la produzione baudelairiana assai eterogenea e, in merito all’ambivalenza sulla modernità, risolve la questione affermando che il poeta francese da una parte si oppone al fuggitivo e perituro del prodotto moderno, dall’altra, allo stesso tempo, intende individuare nel mondo moderno qualcosa che si possa trasmettere, che abbia valore durevole ed eterno.

In un passo del Pittore della vita moderna, egli ha così scritto: «[…] perché ogni modernità acquisti il diritto di diventare antichità, occorre che ne sia tratta fuori la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevole, la vita umana».

E sappiamo bene come Baudelaire con i suoi I fiori del male sia riuscito a rendere sublime quanto di volgare nella vita moderna parigina c’era, prendendone il fango e facendone oro.

SCHEDA DEL LIBRO:

AUTORE: Antoine Compagnon
TITOLO: Un’estate con Baudelaire
EDITORE: Garzanti
PAGINE: 145
ISBN: 9788811671374

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