Nessun arbitro ha diretto la sera del 2 dicembre 2020 la partita Juve vs. Dinamo Kiev, nel torneo più importante per club. Nessun direttore di gara. Se qualche giornale ha scritto “arbitro” non ha ancora capito che la “o” oppure la “a” non è soltanto una vocale, ma il segno tangibile di una rivoluzione.

Perché c’era Stéphanie Frappart a dirigere l’incontro. Un’esponente del cromosoma XX, allenata a correre per 90 minuti e oltre, tra 22 muscolosi professionisti strapagati XY, che irrompe sul palcoscenico mondiale di uno dei tornei più prestigiosi: Champions League, ex Coppa dei Campioni, detta anche in gergo la Coppa con le orecchie. Meglio che non abbia le orecchie, almeno per ascoltare il blablabla di fondo, l’arbitra, come quello ad esempio del fiume di commenti provenire dal tifo juventino apparso sui social. Un magma imbarazzante che non solo non supera gli stereotipi, ma li associa ai pregiudizi sui francesi.

La nostra arbitra, donna e transalpina, è nata il 14 dicembre (tanti auguri quindi) a circa 45 chilometri da Parigi e ad anni luce di distanza dall’universo italico che giudica il calcio femminile e le donne che parlano di calcio, procuratrici, opinioniste, giornaliste, commentatrici etc etc come nate già con un difetto di fabbrica, figlie di un dio sportivo minore.

Stéphanie Frappart arbitraStéphanie Frappart dovrà essere impeccabile. Non potrà sbagliare nulla. Ha gli occhi del mondo puntati addosso, tutti sulle sue decisioni. Gli stessi giocatori saranno un po’ emozionati. Dovrà correre molto per essere sempre vicino all’azione e valutare rapidamente ogni situazione. Dovrà essere impeccabile, perché è una donna. Chi afferma che ci sono altre strade, chi vorrebbe uscire dalle solite sbarre che imprigionano l’immaginario, deve faticare molto di più degli altri. Dev’essere impeccabile o avrà il mondo contro, già scettico, sospettoso, complottista. Più facile farsi annientare dai pregiudizi che convincere l’umanità ad annientarli. Devono faticare il doppio, perché sovvertono i codici stabiliti per consuetudine. Tradiscono le tradizioni. Potrebbe essere la normalità nel migliore dei mondi possibili, invece non lo è.

Il web non è pronto

Frappart deve sfidare non solo la propria lucidità, la resistenza fisica, la prontezza d’occhio, ma anche tutte le critiche pregiudiziali, e le battute più o meno divertenti sugli stereotipi, del tipo: è diventata arbitro per non aver problemi di parcheggio allo stadio. Donna e francese, basta questo agli angoli sportivi del web per far esplodere volgarità su bidet e baguette. Genere e patria, in mancanza di notizie sui dettagli più intimi della sua vita privata. Oppure qualcuno scrive: “era più sensuale Collina”.

Questo senso di marcio che mi pervade mentre scrivo, è la sensazione di essere seduto dalla parte del genere che ha torto, frutto di una cultura immersiva da cui è difficile emergere. La sfida che si apre è quella di rischiare le ali di Icaro per combattere al contempo non solo gli stereotipi ma anche le dicotomie che impediscono alle soggettività di ognuno di esprimersi liberamente.

Tra il maschio che insulta e la donna umiliata e bullizzata c’è inevitabilmente un pensiero fluido che indietreggia, anche quello del macho (con tutti i suoi possibili complessi di omo, trans, bi, queer di ogni ordine e grado e le varie repressioni conseguenti). Ogni battaglia contro l’affermarsi dell’arbitra è un’inutile guerra contro un’anima che non è esterna a noi stessi. Se in ognuno di noi alberga sia una parte femminile che una maschile, non può certo essere giudice imparziale di gara, poiché in lotta perenne con la cultura machista che arriva da tutti i laghi e da tutti i luoghi, anche simbolici e virtuali.

Uscire dal binario

Per salvare le donne, liberare tutti dal binario, dalla dicotomia maschile vs. femminile (una missione impossibile come quella di uscire dai pettegolezzi: come si evince dal recente caso dell’attrice della fortunata pellicola: “Juno”, Ellen Page che di recente ha affermato il diritto ad essere Elliot e si definisce transgender non binario). Un’uscita dalle dicotomie significa anche uscire dal manicheismo ed entrare in una scala di gradazioni più concreta di quanto si pensi. D’altra parte il vuoto si trova nel pieno, lo straniero nel conosciuto, la fine nell’inizio, il principio di piacere nell’infelicità, come intuiva Leopardi nello Zibaldone già prima dell’arrivo della filosofia orientale.

Non sono solo parole

Ma non c’è solo questo: c’è un problema forse più grande al cambiamento del linguaggio, o almeno sintomatico del fatto che le sovrastrutture non sono tanto sovra-qualcosa ma ci penetrano, ci attraversano continuamente: è la sacca di resistenza di alcune donne.

“Voglio essere chiamata ingegnere, non ingegnera”. “Voglio essere chiamata avvocato, non avvocata”. “Voglio essere chiamata portiere, e non portiera, ché mi ricorda quella della macchina”.

Bisogna chiedersi perché. Per inerzia, per abitudine, per voglia di quieto vivere, per non aumentare l’entropia? Esistono donne che hanno il loro quoziente di responsabilità nel tramandare i pregiudizi negativi su loro stesse. Forse deriva da strati e strati di apprendimento, dove i meriti sportivi erano più dei maschi, e una ragazza che tira potentemente, calcia come un ragazzo. Guarda come gioca bene, è proprio un maschiaccio. Guarda come gioca a calcio male, invece, suo fratello, proprio una femminuccia.

Dietro questi atti linguistici, apparentemente pacifici si nasconde una violenza di genere, degenere, degenerata, in cui il soggetto viene invitato a essere se stesso solo all’interno del carcere dell’immaginario. Uomini da una parte, donne dall’altra. Tertium, non datur. Per cui, sembra che un avvocato sia forse più preparato di un’avvocata, come nel tranello linguistico, sicuramente in malafede, il segretario ricopre un ruolo che al femminile sarebbe riduttivo.

Evviva le non-notizie

Forse il modo migliore per celebrare Stéphanie Frappart sarebbe non parlarne, dice in modo paradossale un servizio a lei dedicato su Sky, perché è una non-notizia. Viene prima il talento o la declinazione in a? Entrambe. Includere le donne nel calcio significa accogliere un termine: arbitra. Che non è un neologismo, come ricorda il Corriere. Già presente nella letteratura del medioevo, in alcune espressioni tipo: “arbitra dei destini umani”. Si scopre che nella squadra di arbitri ci sono anche i due Assistenti, e un’altra figura professionale particolare chiamata “quarto uomo” dalla stampa ed entrata così nel lessico (sui giornali è definita per motivi ignoti col numero romano: IV UOMO).

Abbiamo già notato che qualcosa non va. Che la parola “uomo” è già contenuta nel mestiere. Quindi, se fosse una proposta di lavoro sarebbe discriminatoria già in partenza, per definizione. Stephanie Frappart ha risposto bene all’annuncio. In modo impeccabile. Anche le solite proteste di ogni partita sembrano essere scemate. “I fatti sono cambiamenti” lo dice Leonardo Bonucci che, giocando nella vecchia signora, sarebbe pure un’ottima difensora.

 

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